“Così ridiamo dignità ai mestieri”: è il titolo di una breve ma stuzzicante intervista a Paola Mastrocola, apparsa il 12 aprile su un quotidiano nazionale (il Giornale, 12 aprile 2011). Le lapidarie risposte della professoressa/scrittrice, a commento dei dati presentati proprio in questi giorni dal Rapporto sulla Sussidiarietà 2010, come spesso accade colpiscono nel segno, acute e provocatorie.
Difficile tacere, del resto, di fronte a numeri così significativi. Sì, perché il Rapporto ci dice che il 38% degli studenti considera la scuola “un luogo dove non si ha voglia di andare”; e poi perché ci dice che in Italia il 30% circa degli iscritti alla prima superiore non riesce a terminare gli studi, mentre tra coloro che
permangono nel sistema di istruzione i tassi di assenza scolastica sono in costante crescita; e come dimenticare, infine, i ”famosi” neet (not in education, emplyoment or training), quel 29% di giovani tra i 15 e i 29 anni che è disoccupato o volutamente inoccupato?
Una sistema scolastico in profonda crisi, insomma, le cui cause, secondo la brava scrittrice, sono attribuibili ad “alcune scelte disastrose” fatte dalla sua/nostra generazione e da “luoghi comuni che ci opprimono da 40 anni”. Sotto accusa, in particolare, la scolarizzazione forzata e la liceizzazione eccessiva del nostro sistema di istruzione, frutti di “uno sbagliato schematismo culturale in base al quale sembra quasi che il figlio di un professionista debba vergognarsi di seguire un istituto tecnico”. Per la Mastrocola, dunque, sarebbe necessario rivalutare i mestieri, e “se il figlio di un avvocato volesse studiare per diventare un intarsiatore del legno, dovrebbe poterlo fare senza sensi di colpa né da parte sua né della famiglia”; una operazione di rivalutazione che dovrebbe giungere fino al punto di istituire facoltà per consentire, a chi sceglie lavori artigianali di formarsi a livello universitario, così come avviene in altri paesi europei.
Mi è capitato, un po’ di tempo fa, di aver bisogno di un falegname per rinnovare le persiane della mia casa, così mi sono rivolto ad una ditta di decoratori consigliatami da un amico. All’appuntamento prefissato si presenta un giovane che, dopo qualche istante di incertezza,
riconosco come un mio ex alunno, ritiratosi qualche anno prima dalla frequenza scolastica, a metà della prima superiore. Mi racconta, così, di avere lasciato la scuola perché “proprio non ce la facevo, prof, non era roba per me…” e di aver poi frequentato un corso di formazione professionale in falegnameria. Assunto quasi subito, aveva dovuto fare –giustamente- un po’ di gavetta, però era soddisfatto: “Mi piace, prof, sono contento. Ho trovato la mia strada!”
E non mentiva: guardandolo lavorare, facendogli domande sugli smalti e sulla lavorazione del legno, mi sono reso conto che davvero ne sapeva, aveva passione e gusto per quel che faceva, e non ho potuto fare a meno di pensare ai miei tanti studenti demotivati, tristi o arrabbiati che quotidianamente incontravo a scuola…
Già, bisognerebbe ridare dignità ai mestieri. I dati del Rapporto sulla Sussidiarietà 2010 ci confermano, del resto, che il 74% di quelli che hanno frequentato un CFP (privato o appartenente al mondo no-profit) è contento di quello che ha fatto, e questa dunque sembra essere una strada privilegiata che può e deve essere sostenuta per raggiungere un simile obiettivo.
Ma da una traguardo così arduo ci separa ancora, purtroppo, un enorme gap culturale, tipico di un’Italia che non ha completamente smaltito le tossine di una “certa” ideologia, quella che ha identificato nel lavoro perlopiù una condizione negativa, fonte permanente di disuguaglianze sociale, conflitti e sfruttamento, anziché uno strumento di realizzazione della persona e del bene comune. Siamo impantanati nell’idea –così poco cristiana- che “il lavoro non nobilita l’uomo”, mentre sarebbe necessaria una rivoluzione culturale che ci portasse a riconoscere non tanto che “il lavoro nobilita l’uomo”, quanto che “è l’uomo a nobilitare il lavoro”, poiché la persona non vale per ciò che produce o per il gradino che
occupa nella scala sociale, ma semplicemente perché esiste.
Per questo è auspicabile, come ha scritto la Mastrocola, che i giovani possano “scegliere loro, in prima persona, la vita che vorranno, ignorando ogni pressione, sociale e familiare”; ma, ancor più e ancor prima (perché diversamente la scelta non avrebbe modo di esercitarsi concretamente) sono auspicabili tutti quegli interventi che incrementano i meccanismi di flessibilità e la gamma delle opzioni educative/formative, in un sistema di reale libertà di scelta.
Nell’istruzione, come nel lavoro, ognuno ha la sua strada e ogni strada è degna, perché degno è l’uomo. Liberiamo il passaggio, è la vera carta vincente del futuro.
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