Il progetto del Giovedì Santo - di BARBALBERO*
Sono partito brontolando con Luigi Liseno, croce della mia vita, che il primo giorno di vacanza (scolasticamente parlando) fosse anch’esso occupato dal lavoro: un progetto su cui c’eravamo impegnati con Enrico e Gino di Ferrara. E’ una mattina fredda da primavera mancata, il tomtom non conosce neppure lui il dedalo di campagne tra cui ci perdiamo.
Copparo mi fa memoria di un ritorno solo una decina di anni fa tra una nebbia ai confini della realtà, dopo un incontro tra educatori con un insistito passaggio sempre sul medesimo punto. Poi una macchina ci si mise davanti e ci invitò a seguire e
prodigiosamente ci trovammo fuori. Da Enrico ci attende il secondo caffè della mattina e poi si progetta ovvero si parla di noi, delle nostre vite, dei ragazzi che vorremmo collocare al lavoro, delle nostre strutture recettive (il progetto riguarda un bando sulle politiche giovanili). Enrico conosce le realtà dal di dentro, parla di uomini e donne all’opera. Non posso non pensare a suo padre con il quale ho condiviso una vita di progetti (tutti realizzati!).
Progettare di giovedì santo è un po’ strano, c’è la “Coena Domini” che incombe come pensiero dominante, ci sono le
spese da fare, gli ultimi ritocchi al pranzo pasquale con figli e nipoti. Parlando si precisa il soggetto: “le nostre strutture non sono e non saranno mai semplicemente degli alberghi perché hanno il valore aggiunto della nostra tipicità, cioè di ciò che ci è successo. E’ un fattore di diversità che dà vita ad un prodotto nuovo che non si omologa al mercato ma si presenta per ciò che è; una compagnia di uomini insomma che chi passa per le nostre città, anche per turismo, possa incontrare nella forma
più espressiva e più tipica, una sorta di genius loci che traduce Colui che abbiamo incontrato dentro la vita delle nostre strade, delle case, delle calli. E’ proprio un progetto da Giovedì Santo, viene presto l’ora di pranzo ed Enrico ci guida tra un dedalo di terre emerse lagunari.
Uomini diversi sono seduti attorno ad una grande tavolata in un casone di pesca. Non li conto, ma non so perché mi entra il numero dodici e c’è anche una donna, Gabriella che segue silenziosa ma le parlano gli occhi.
La giornata è una di quelle fredde ma terse, si vede in lontananza, da noi si direbbe stravedamento, e Alessandro ci mostra le barene e i canali fatti scavare e la valli da pesca ed è fiero di aver provocato tutto questo per noi. Tutt’attorno è un susseguirsi di baracche di fortuna, ricoveri per barche, cavane, piccoli rifugi tra l’acqua. C’è il padrone di casa ma non lo dà a vedere se non per un calore di accoglienza e perché occupa una posizione centrale per farsi ascoltare da tutti e benedire il pane.
Si mangia, e come si mangia!, ma nel contempo si parla che è il modo più gustoso di mangiare. Nazareno, questo è il nome del padrone di casa prende un libro tra le mani, dice di non averlo letto tutto, ma ciò che ha letto gli basta per cominciare a ripensare il suo lavoro come cosa importante, senso dell’umano essere indaffarati. Parla di capitale umano, di rapporti veri tra uomini che attendono qualcosa di importante per la vita, parla anche di Pasqua e agli altri non sembra strano. Conclude con una frase che ha lo stesso sapore del pesce: “se vuoi costruire una barca non radunare uomini per tagliare legname, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito”. C’è un imprenditore, Luciano, che parla di case fatte di legno e ci stupisce tutti ed ha bisogno di mano d’opera per farle e ce le garantisce come valide, resistenti e qualcuno di noi si preoccupa perché possa trovare lavoratori bravi e volonterosi magari tra i nostri ragazzi.
E intanto arrivano le cape sante e i caparossoli, e un risotto d’anguilla delicato. E ci si presenta, alcuni infatti non si conoscono ma non importa si sta assieme e ci si racconta storie diverse di gente che vive lontana ma è messa assieme
da un ideale comune che ha un volto ed un nome. E c’è anche uno che dice di non averlo ancora incontrato, un socialista prudhommiano, certo Angelini, di quelli rari da trovare, una specie in via di estinzione capace di parlare di sé della sua ricerca e commenta gli interventi degli altri che dicono come sia possibile lavorare diversamente. Uno parla di campane che suonano e di un ragazzo tra i più sempliciotti che blocca il lavoro per recitare l’angelus. Stranezze di Pasqua che avvengono tutti i santi giorni! Gli altri commentano, non sembrano scandalizzarsi anzi fanno domande. Il tempo vola nel casone di valle e tutti devono tornare a casa, ci sono i riti pasquali che incombono, l’ultima cena, un po’ come questa. Ci si promette di ritrovarsi, di tenersi presenti nella vita. Chissà se succederà, ma non importa, adesso sappiamo che ci sono nel mondo dell’impresa uomini così capaci di stare in un giovedì santo a mangiare e lavorare come in attesa di una resurrezione anche per sé e per il proprio lavoro. Il sottoscritto risale in macchina e con Luigi, ora più delizia che croce, facciamo memoria di un sapore più resistente di quello del pesce.
In un bigliettino d’augurio arrivato in questi giorni leggo questa frase di mons. Albacete “lo sappiamo bene. Gesù è morto e poi risorto: allora la resurrezione può fare in modo che ci troviamo insieme a lui a mangiare il pesce? Dove trovo questa possibilità? La risposta data da Cristo stesso la notte prima di morire è: nella vita di questa compagnia. E’ all’interno della nostra compagnia, nella nostra esperienza e nella nostra umanità, che possiamo gustare quello che Lui ha fatto”.
* BARBALBERO è per noi Piergiorgio “Lolli” Bighin, Opera Baldo.
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