giovedì 28 febbraio 2008

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Chiamati a condividere il bisogno - Assemblea conclusiva della Scuola d’Impresa per Opere di Carità.

Circa novecento persone, fra manager, operatori e stakeholders del non profit hanno dunque assistito al dialogo fra Mario Dupuis, presidente del gruppo Edimar nonché coordinatore della scuola, e don Juliàn Carròn, Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione.

Dopo una breve introduzione di Antonio Mandelli, presidente di FIS-CdO, Dupuis è intervenuto descrivendo l’idea che sta a fondamento di tutta la scuola. Il rischio di chi lavora in un’opera di carità, di chi gestisce un’impresa sociale, è spesso quello di trincerarsi dietro la mission della propria opera, e di delegare a questa la giustificazione del proprio operare. L’obiettivo principale del percorso è dunque dare una scossa che ridesti la coscienza di che cosa significhi realmente gestire e lavorare in un’opera non profit. E ciò è possibile solo mediante l’accettazione del fatto che non ci si può limitare all’applicazione di un metodo teorico o predefinito che, seppur carico di buonafede e dettato dalle migliori intenzioni, non fa i conti fino in fondo con la realtà. Di qui la prima domanda di Dupuis.

Di fronte alla fatica denunciata da molte testimonianze di dirigenti o operatori del terzo settore, ci si pone davanti all’interrogativo sul significato del proprio lavoro, sulla possibilità di intraprendere seriamente un cammino e un metodo di crescita nella condivisione del bisogno di chi si assiste e si aiuta. In ultima analisi sorge il quesito “che cosa realmente significa essere utili?”.

“La stanchezza” ha detto don Carron, “è il primo sintomo da guardare perché ci provoca a trovare una risposta alle nostre esigenze e desideri di operatori. Senza una risposta al nostro bisogno non possiamo pensare di offrire un aiuto agli utenti delle nostre opere”. Una condivisione del bisogno che chiama alla lealtà di chi la attua, la quale impedisca l’insorgere di una pur benevola presunzione nei confronti degli utenti che spesso traduce l’assistenza in meccaniche artificiose e astratte. Ed essere leali per Carron altro non significa se non capire la sproporzione strutturale fra il proprio tentativo di risposta e il bisogno di infinito di ogni uomo.

“La caritativa nasce così. Il nostro bisogno ci porta ad aprirci in continuazione come un’ininterrotta urgenza che fa saltare il nostro preconcetto che è il nostro razionalismo, la nostra misura”. E, punto fondamentale del discorso, l’azione caritativa non deve dipendere dalla risposta di chi la riceve. Se così fosse si ridurrebbe nuovamente a uno schematismo, rischiando di scoraggiare ogni iniziativa che non riceva un immediato e apparente riscontro positivo. È possibile invece realizzare un’opera di carità senza dipendere da questi fattori limitativi solo ed esclusivamente se si accetta in primo luogo la carità di un altro su di sé.

“Ti ho amato di un amore eterno e ho avuto pietà del tuo niente” ha continuato Carron, citando il profeta Geremia. “Noi non siamo Dio, siamo sempre bisognosi. Perciò il primo fatto che occorre riconoscere è che abbiamo bisogno di essere amati in questo modo”. Una seconda questione posta in merito alla fatica che comporta lo stare uniti, la cooperazione fra le persone che compongono un’impresa sociale, ognuna delle quali è dotata di un proprio carattere, di una propria sensibilità, ha suscitato una risposta incentrata sempre sulla coscienza del proprio bisogno. “Si fa fatica a vivere l’unità perché di fondo non ci si sente bisognosi. L’altro non fa parte della modalità con cui si intende pianificare e organizzare un’impresa”.

La sfida alla quale si è chiamati, secondo Carron, è quella di concepire il proprio collega, datore di lavoro o dipendente non come un’alterità, ma come un’occasione, un dono per realizzare la propria opera. Verificare questa occasione consiste nel riconoscere senza pregiudizi il contributo allo sviluppo dell’impresa offerto da coloro che ne fanno parte. E proprio in merito alle problematiche legate alla crescita delle opere è sorta la terza provocazione di Dupuis: cosa significa uno sviluppo dell’opera che non ne metta a rischio la natura?

La risposta di Carron non ha preso in considerazione delle misure standard che garantiscano un mantenimento della mission di qualsivoglia impresa sociale, ma ha piuttosto evidenziato come il desiderio di crescere per ogni ente sia naturale e positivo. Ma ha anche avvertito: “l’unico nostro criterio dev’essere quello di dare risposta al bisogno dell’uomo. Ciò però non sarà mai possibile se per crescere perdiamo di vista l’uomo stesso, la nostra e l’altrui umanità. Se questo avviene allora mi domando che interesse ci sia nel portare avanti un’opera di carità, non si tratta di grandi questioni filosofiche, ma di questa semplice attenzione a non perdere d’occhio il fattore umano. Il dramma dello sviluppo è che non può essere neutrale, o lo si attua in un’ottica nichilista, fine a se stessa o lo si realizza in funzione dell’uomo e del suo bisogno”.

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